Namahaca (Mozambico), 17/12/2017
“Gioiscano i cieli, esulti la terra, frema il mare e quanto racchiude, esultino i campi e quanto contengono, si rallegrino gli alberi della foresta davanti al Signore che viene” (dal Salmo 96).
Questo è quanto trasmette la preghiera africana durante la S. Messa: una partecipazione totale, gioiosa, incontenibile al mistero di un Dio che invade la vita dell’uomo e che, in quel preciso momento, si rende particolarmente presente e vicino al credente che Lo invoca.
Non si tratta solo dell’impiego sapiente del corpo nelle danze delle bambine, né dei poliritmi di chi accompagna i canti con i tamburi; non è, insomma, un fatto puramente “estetico”, ma qualcosa di più profondo: lo Spirito dell’uomo che vibra all’unisono con lo Spirito di Dio.
Non trovo siano chiassose le cerimonie africane, tutt’altro. Vi sono momenti di grande concentrazione e struggente bellezza: i canti, punteggiati di “crescendo e “diminuendo”, in cui il “cantore principale” intona un versetto e l’assemblea in coro risponde e ripete; gli “onori” e la reverenza con cui la Parola di Dio viene portata verso l’altare e mostrata ai fedeli, e gli occhi e le anime dei presenti non percepiscono altro, totalmente assorbiti dal Verbo di Dio che viene a illuminare la Terra; i gesti, così eloquenti, che accompagnano la preghiera del Padre Nostro.!
Durante l’Offertorio due sole parole: “Ricevi, Signore!”, ripetute con irresistibile insistenza nel canto, sono quanto di più semplice, essenziale, tuttavia completo possa esserci e null’altro occorre aggiungere.
Forse le nostre celebrazioni, talvolta un poco meccaniche nella partecipazione dei fedeli, necessiterebbero di recuperare e sviluppare questa dimensione di attento, immediato e totale coinvolgimento.
Sono certa che le preghiere cui ho assistito siano gradite al Padre: il Suo cuore accogliente non può rifiutarle se il mio, assai meno capace di amare, ne è stato conquistato.
Speriamo e facciamo in modo che anche le nostre preghiere siano a Lui altrettanto gradite.
“Alla tua discendenza io darò questa terra” (Gn 12, 7)
La promessa di Dio ad Abramo evidenzia l’aspetto fondamentale dell’inalienabilità della Terra la quale, essendo dono del Padre, impone un vincolo preciso al diritto di proprietà. A rinforzare quanto detto: “Non si vendano le terre per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me soltanto come forestieri e ospiti” (Lev 25, 23).
La terra d’Africa, la terra mozambicana, suolo dove riposano gli Antenati, Madre di tutti i viventi, luogo dove si costruisce l’identità sociale e culturale di un popolo, ogni giorno viene progressivamente sottratta a chi da sempre la abita, a causa degli appetiti irrefrenabili di pochi per le risorse di un paese che non arricchiscono chi in esso vive.
In occasione di una visita a una comunità della Parrocchia di Namahaca ho raccolto la disperazione di un giovane contadino, il quale ha condiviso la preoccupazione per il land grabbing, l’accaparramento della terra, che rischia di fagocitare anche quella comunità, la sua perdita di speranza nella possibilità di proteggere e difendere l’unica fonte di lavoro e sostentamento, il senso di una impotenza lacerante.
Come continuare a lottare per la giustizia utilizzando strumenti non violenti, tutelando la pace così faticosamente raggiunta? Sarà mai possibile costruire un’economia al servizio dei popoli, in cui il diritto del singolo non si eserciti a detrimento del bene comune? Come risvegliare in ciascuno un senso profondo di responsabilità per gli altri, affinché non esistano più i “vicini” e i “lontani”, ma tutti si sentano parte della stessa famiglia, intimamente coinvolti nei destini degli uomini, nella cura della vita e della bellezza le quali, nonostante tutto, continuano a pervadere questa “casa comune”, che esisteva prima che noi fossimo?
Singolare “dono natalizio”: lascio queste domande alla vostra riflessione perché vi tormentino un po’, come tormentano me, e non vi lascino in pace fino a quando la giustizia non sarà assicurata a tutti gli esseri umani, nessuno escluso.
Arianna Giovannini
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